Oggi abbiamo deciso di occuparci di un argomento molto delicato: cosa significa perdere un figlio. E’ un dolore inaudito, talmente inimagginabile che chi non lo ha mai vissuto non sa quali parole usare. E forse non ci saranno mai parole adatte.
Così abbiamo chiesto a Marilena, Mamma di tre bimbi e due angioletti, di condividere con noi la sua storia.
“Le due prime gravidanze sono state portate a termine senza problemi. La ricerca del terzo figlio, tanto desiderato, non è stata così facile. Nel 2015 alla 21esima settimana ho partorito prematuramente un maschietto, a causa di un’infezione. Una giornata strana, con qualche contrazione, quelle normali, poi qualche perditina. Siamo andati al pronto soccorso, mai avrei immaginato che fossi in travaglio e che da li a poche ore mio figlio sarebbe finito in un sacco e portato via.
Ho passato la notte a convincermi che fosse stato solo un brutto sogno ma, purtroppo, era la realtà. In ospedale, come se nulla fosse, tra una visita e l’altra mi hanno chiesto se volevo dare un nome al “bambino ” e fare un funerale (fino alla 28 esima settimana, per la legge, non è obbligatorio). In quel momento non ho avuto le forze di sostenere quel dolore per un bambino che non avevo neanche visto, e non ho fatto nulla.
Il post parto è stato pieno di complicazioni: una flebite qualche giorno dopo. Come se non bastasse, un mese dopo, ho dovuto addirittura fare una revisione d’urgenza perché si erano dimenticati un pezzo di placenta, che ha compromesso l’utero e un rene.
La vita va avanti: i miei figli più grandi (per quanto si possano considerare grandi dei bimbi che all’epoca avevano 4 e 2 anni) mi hanno aiutato a vivere la quotidianità, ma il dolore non passa. Si insinua li, in quell’angolo di cuore che non batte più, pronto a riaffiorare con un attacco di ansia, un attacco di panico, o con qualche paura riconducibile a questa brutta avventura.
Dopo la perdita di un figlio, una gravidanza gemellare
Qualche anno dopo sono di nuovo incinta. Quante paure. Ogni visita un’angoscia anche perché nella pancia avevo due gemelli. Mi sembrava che il Signore mi stesse ridando ciò che mi era stato tolto. Facevo moltissimi controlli, sia per i problemi avuti precedentemente, sia per la gravidanza gemellare.
Alla 25esima settimana, tutto bene ad eccezione aver scoperto che uno dei due gemelli , entrambi maschietti, ha un solo rene e che ho un accorciamento dell’utero ma il ginecologo non si preoccupa:” Teniamo la situazione sotto controllo”.
Due giorni dopo questa visita, nella notte dolori, perditine: un incubo già vissuto. No, non può essere vero. No, non può succedere di nuovo sempre a me.
E invece, tutto uguale: pronto soccorso, già in travaglio, alle 11.40 nasce Davide. Avvolto in una placenta infetta. Non respira, il cuore non batte. Davide non ce l’ha fatta. Mi dicono che magari il travaglio si fermerà e io potrò portare a termine la gravidanza solo con Giulio.
Di nuovo complicazioni e dopo qualche ora mi risveglio con il braccialetto. Sono mamma di chi? Non mi sembra vero. Giulio è in terapia intensiva e pesa 850 grammi.
Perdere un figlio: come si elabora?
I primi giorni non stavo bene. Anche i miei bimbi erano tristi perché desideravano tanto due fratellini. Avevo deluso anche loro.
La psicologa mi suggerisce di andare a trovare Davide nella camera mortuaria, diceva che aiuta a elaborare il lutto. È un dolore forte, anche se da mamma non l’ho mai preso in braccio, non gli ho mai dato un bacio, non l’ho mai sentito piangere e non lo ho mai consolato.
Fa male!
In terapia intensiva neonatale (TIN), luci, suoni, medici , infermieri, genitori con visi cupi, tubicini, macchinari, incubatrici e poi GIULIO. Non riuscivo neanche a vederlo per quanto fosse piccolo dentro a quell’astronave. Sono voluta andare via e pensavo che fossimo degli illusi a sperare che Giulio ce la potesse fare. Tutti attaccati a un bambino di 600 grammi (dopo il calo fisiologico). Non vado a trovarlo per un po’ di giorni. Per me era inutile legarsi al “niente”.
Ero certa che Giulio non ce l’avrebbe mai fatta. Ad ogni squillo del telefono temevo fosse la TIN per darmi la brutta notizia.
Una sera, due giorni prima di essere dimessa, tornai a trovarlo. Un’infermiera mi chiese di cambiargli il pannolino che era così piccolo che sembrava quello dei bambolotti piccoli. Così capisco di essere sua mamma e che lui ha bisogno anche di me, forse almeno quanto io ho bisogno di lui. Inizia in quel momento il nostro difficile percorso insieme!
I bimbi prematuri sono dei guerrieri
I bambini prematuri sono definiti “guerrieri” anche se è riduttivo. In quel reparto si aggrappano tutti alla vita con una tenacia e una forza inimagginabile per un essere così piccolo.
Giulio viene dimesso dall’ospedale il 9 dicembre, ma ha ancora bisogno dell’ossigeno a domicilio.
Di colpo ci sentiamo ancora più responsabili della vita di Giulio tra macchinari e parametri da ricordare e valutare. Intraprendiamo un lungo percorso di visite e controlli, tra paure e ansie. Alle dimissioni, infatti, ci dissero che avrebbe potuto avere problemi di qualsiasi genere. Giulio oggi ha 3 anni appena compiuti. Ha appena iniziato la scuola materna.
Il nostro guerriero sta bene. Non ha più l’ossigeno e non fa più tanti controlli, non più di un bambino nato a termine.
Giulio si è salvato e ci piace credere che Davide viva in lui e che a combattere per la vita fossero in due. Davide è sepolto al cimitero. Ogni tanto andiamo a trovarlo tutti insieme, e tra la commozione generale Giulio, con la sua ingenuità lo saluta:
“Ciao Avide””
In questo modo speriamo di aver fatto sentire meno sole, anche solo per un minuto, tutte le mamme che purtroppo, hanno perso un pezzo del loro cuore.