Intervista a Sara Fenoglio, community organizer di Torino
Dinanzi ad un problema, siamo naturalmente e inconsapevolmente portati a trovare la soluzione, magari la più efficace. Se invece di partire dal problema e dalla sua soluzione, partissimo dalla relazione sottostante avremmo la possibilità di costruire legami tra persone e tra queste e il loro territorio capaci di generare nella società civile il potere di proposta, di fattibilità e di attuazione di pratiche di democrazia e giustizia. Questo è ciò che fa il community organizer.
Aiuta a sviluppare le relazioni partendo dall’arte dell’ascolto.
Non è una nuova professione, piuttosto una missione praticata da poche persone, ma tra queste abbiamo trovato la dott.ssa Sara Fenoglio, a cui abbiamo rivolto alcune domande.
Di cosa si occupa in concreto il/la community organizer?
Il/la community organizer è una persona preposta a stimolare e sviluppare capacità di azione collettiva per rendere le organizzazioni della società civile in grado di rispondere meglio alle sfide.
Si parla di sviluppare potere relazionale in un particolare territorio.
I problemi che devono affrontare le comunità non sono una conseguenza della mancanza di soluzioni efficaci. Sono una conseguenza della mancanza di potere per implementare le soluzioni – Barack Obama.
Obiettivo dell’organizer è supportare lo sviluppo di leadership locale ispirando e promuovendo pratiche che portino alla costituzione di alleanze civiche per la rigenerazione urbana, lo sviluppo territoriale e l’inclusione sociale.
L’organizer non si sostituisce ai leader locali.
L’attività del/della community organizer si traduce in un processo di acquisizione di potere e costruzione di strategie con i leader locali.
L’individuazione di obiettivi praticabili diviene un fattore chiave.
L’operato del community organizer si articola in un ciclo continuo di ascolto, nella costruzione di relazioni, nella definizione di aspirazioni minime da raggiungere, nella comprensione e creazione delle condizioni per raggiungere quelle aspettative.
Tuttavia, questo lavoro non viene portato avanti e costruito dall’organizer da solo, ma con i leader locali di modo da sviluppare una sostenibilità e continuità del processo organizzativo.
Obiettivo del community organizing da ultimo è proprio l’empowerment della leadership locale e della comunità a base allargata affinché si creino le condizioni per praticare una democrazia in cui le persone sappiano scegliere, riconoscere i propri interessi, sapere individuare una strategia per fare pressione su istituzioni, imprese e pubblica amministrazione.
Può raccontarci un progetto in corso per comprendere come lavorate?
Attualmente io sto lavorando come community organizer e borsista del Dipartimento di CPS che dal 2019 ha avviato un progetto pilota di community organizing sul territorio di Torino nord. Nel 2020 è cominciato il nostro percorso sul campo conducendo incontri relazionali e momenti di condivisione metodologica. Dopo aver ricevuto un certo numero di richieste di approfondimento del metodo abbiamo deciso di proporre una formazione di community organizing per leader e realtà locali di Torino nord che si è svolta nell’autunno del 2020.
Da questo momento e nei mesi successivi abbiamo continuato il lavoro di ascolto incontrando artisti, architetti, musicisti, insegnanti, genitori, educatori, attivisti, giovani e anziani, leader religiosi e volontari. Incontrandoci e conoscendoci attraverso gli incontri relazionali abbiamo condiviso storie e momenti d’ispirazione fondamentali per capire chi siamo oggi e dove vorremmo andare domani.
Le storie sono la linfa del community organizing, della cultura relazionale, dello sviluppo di potere con le persone.
Ascoltando e approfondendo sempre più la conoscenza del territorio sono emersi diversi temi d’interesse, l’educazione e il disagio giovanile, le ecoisole e la gestione dei rifiuti, il cibo e la filiera agroalimentare e le arti di comunità.
I tempi di elaborazione sono diversi per i singoli gruppi.
La difficoltà ad oggi risiede nel calare i propri interessi in proposte e azioni concrete che siano attuabili rispetto alle proprie capacità e i tempi desiderati di modo da rafforzare la nostra autostima e dare valore alle nostre aspettative di cambiamento.
Che differenza c’è tra la community organizing e la democrazia partecipata e perché la vostra modalità dovrebbe funzionale di più?
Non credo che il community organizing sia la risposta alla crisi della democrazia oggi o che dovrebbe funzionare di più della democrazia partecipata.
Semplicemente il community organizing vuole diffondere strumenti e competenze concrete tra i vari gruppi della società civile, in particolare quelli più svantaggiati e isolati.
Questo per instillare nuova fiducia e capacità nei singoli e nei gruppi nell’ottenimento di cambiamenti sociali a livello sistemico.
Il potere corrompe, ma la sensazione di impotenza, di non poter avere alcun influenza, alcuna capacità di cambiare le cose è ancora più pervasiva e corruttiva.
Il community organizing vuole agire sulle radici di questo problema politico, suscitando l’uscita dall’apatia verso una scelta intenzionale di azione collettiva.
Scegliere di agire sui problemi, conoscerne e analizzare le dinamiche che li caratterizzano, organizzarsi e rioganizzarsi in base alle lezioni apprese e al confronto con altre pratiche di successo e di fallimento ridà valore e potere alla società civile.
L’ascolto di sé e degli altri e l’accoglienza dei diversi punti di vista è dunque il punto di partenza.
Qui parte un percorso nuovo che provoca il potere del cambiamento innanzitutto nelle persone.
Forse è proprio questo potere a non essere più sentito dalle persone. Ma che male può fare provare?