Dopo la diffusione della notizia secondo la quale il Tribunale di Busto Arsizio ha assolto un uomo che aveva violentato una donna, abbiamo riflettuto a lungo su come comunichiamo la violenza.
O per meglio dire su come i media comunicano la violenza ai fruitori della comunicazione che vanno dalle vittime ai carnefici passando attraverso coloro che per lavoro a vario titolo si occupano di violenza e tutti i normali ricettori di notizie, tra cui ci sono anche bambini e ragazzi.
Come comunichiamo la violenza e in particolare come è stata comunicata la decisione di cui stiamo parlando?
L’Avv. Maria Grazia Tripodi ci risponde così:
“L’assoluzione emessa dal Tribunale si baserebbe su una motivazione a dir poco aberrante.
Il condizionale è d’obbligo poiché non disponiamo del testo integrale della sentenza, ma solo di commenti.
Secondo quanto riportato, quindi, Il fatto non avrebbe costituito reato in quanto la reazione di dissenso della vittima sarebbe arrivata con un ritardo di 20”.
In questa sede non mi soffermerò sul concetto di consenso, che non è mancato dissenso, perché su questo c’è ancora molta confusione e molto deve essere ancora fatto a livello di consapevolezza personale, giuridica e poi comunicativa.
Nella motivazione, o, per lo meno, quello che ci è dato sapere, all’avvocato salta subito all’occhio come il giudice parrebbe non aver tenuto nella minima considerazione il contesto nel quale i fatti sono maturati.
Una donna, in conflitto con il datore di lavoro (primo fattore di vulnerabilità), si rivolge a chi avrebbe dovuto tutelarla, ricevendo da tale soggetto una violenza (altro ed ulteriore profilo di “vulnerabilità”).
A mio giudizio, ci sono tutti gli elementi per definire tale vittima come “vulnerabile” concetto che porta con sé varie conseguenze giuridiche.
Qui basta dire che indica un soggetto che deve essere destinatario di una maggiore e rafforzata tutela all’interno del processo.
Il concetto di “soggetto vulnerabile”, quindi bisognoso di una tutela rafforzata, non è frutto di speculazioni filosofiche.
E’ una vera e propria categoria giuridica, introdotta per legge e proprio in questi termini.
Ciò è bene dirlo perché si sappia e si urli che questa sentenza, all’apparenza aberrante, e con ciò ci uniamo a quanto già scritto, non è rappresentativa di ciò che quotidianamente accade nelle aule di giustizia.”
Quale messaggio sbagliato è passato secondo te?
E’ passato il messaggio per cui la donna che denuncia, sistematicamente non viene creduta.
Sistematicamente viene messa sul banco degli imputati e i suoi comportamenti sono oggetto di morbosa e maniacale analisi da parte della polizia prima, dei magistrati e degli avvocati dopo.
Mentre i comportamenti degli aguzzini sarebbero guardati con tolleranza. Non è vero!
Almeno, spesso, non lo è. E lo è sempre di meno!
È importante ribadire come questa sentenza non sia paradigmatica di questo mondo.
Pur restando, quello della denuncia, un percorso difficile che va sostenuto sia dai centri antiviolenza, sia con avvocati preparati a tutelare la vittima da odiose insinuazioni, nella generalità dei casi la vittima viene creduta e protetta e l’aguzzino, spesso, condannato.
Ciò deve rassicurare e rafforzare l’intento delle donne che denunciano e deve far riflettere il mondo della comunicazione su come comunicare la violenza.
Attenzione a come comunichiamo la violenza
Attenzione a come comunicare la violenza
Crediamo che non debba passare un messaggio sbagliato.
È vero c’è ancora molta strada da fare!
Siamo indubbiamente indietro sulla cultura che ci circonda, sulla formazione delle forze dell’ordine e dei legali, ma il modo di ragionare che emerge dalla sentenza non è la prassi.
Non è vero cioè, che denunciare nella migliore delle ipotesi non serve a nulla e, nella peggiore, si ripercuote contro la vittima.
Grazie al lavoro dei centri antiviolenza e alla sensibilità acquisita da molti avvocati e pm molto è cambiato fuori e dentro le aule di giustizia.