Tablet: 5 buoni motivi per cercare delle alternative

La scuola è finita e l’aria vacanziera ci dà occasione di condividere alcune riflessioni intorno al tempo libero dei ragazzi. In questo periodo dell’anno le lezioni di danza, calcio, catechismo, inglese, karate lasciano il posto a ore libere, tempi non organizzati, momenti di relax. Sappiamo che il tablet è il passatempo preferito di molti ragazzi, oggetto di grande fascino per i bambini e talvolta proposto ai piccolissimi con l’intento di tenerli impegnati.

Vi invito, però, a riflettere sulle ragioni per cui da tante parti – fonti neuropsicologiche, sociologiche, didattiche, pedagogiche, psicologiche –  si sollevano critiche a questo strumento tecnologico, soprattutto quando viene utilizzato in età molto precoci.

Vi presento, quindi, 5 buone ragioni (cioè su basate su elementi fondati ed oggettivi) per le quali cercare delle alternative al tablet:

  1. Immagini a velocità troppo alta

Spot pubblicitari che partono da soli, video che si inseriscono nei giochi; appena si sfiora lo schermo succedono cose e sembra che l’oggetto sia dotato di vita autonoma.

L’osservazione delle immagini viene frammentata ripetutamente da app che si sovrappongono, cambiano, si chiudono o rimandano ad altre visualizzazioni. L’analisi visiva perde continuamente i riferimenti spaziali e non può che fermarsi a ciò che occupa più spazio, è più colorato o si muove. L’occhio afferra solo ciò che è macro, ciò che si staglia nettamente sullo sfondo, perdendo inevitabilmente i dettagli, le sfumature, i particolari di ciò che si ha davanti.

Ciò che passa veloce sullo schermo si perde, ne rimane una scia indistinta come il paesaggio dal finestrino del treno.

  1. Troppi suoni

Gli stimoli sonori che sottostanno alle attività del tablet nelle loro varie applicazioni, sono continui: dai bip alle musichette, alla riproduzione di rumori reali nei giochi di simulazione.

L’affollamento uditivo non permette di prestare attenzione agli altri stimoli, distrae da ciò che compare sullo schermo. Contemporaneamente isola dal contesto reale, non permette di accorgersi di cosa succede intorno: qualcuno che mi rivolge la parola, il campanello della porta, un clacson giù in strada.

  1. La realtà virtuale è inconsistente

Sin dalla più tenera infanzia la scoperta del mondo esterno avviene attraverso la sperimentazione diretta, il bambino entra in contatto con gli oggetti e le persone attraverso le mani e la bocca che costituiscono i suoi primi strumenti di esplorazione. Tocca, afferra, passa gli oggetti da una mano all’altra e raccoglie informazioni sulle forme, il peso, le superfici, i colori, gli odori, i sapori, la temperatura. Una banca dati importantissima che è alla base dello sviluppo percettivo e spaziale, oltre che di relazione con il mondo esterno a sé. Lo sviluppo è sempre psico-motorio – nel senso che l’evoluzione cognitiva è strettamente interconnessa con quella motoria e le esperienze concrete sono alla base delle relazioni neurali dell’apprendimento. Il problem solving, se vogliamo usare un’espressione inglese, è il fondamento dell’intelligenza e della sopravvivenza della specie, in ultima istanza. Ma è necessario che questa esperienza sia la più vasta possibile, completa e distribuita su tutti i “sensori” di cui la natura ci ha forniti, soprattutto all’inizio dello sviluppo dell’individuo. Siamo tridimensionali, come tre sono le dimensioni dello spazio intorno a noi.

Anticipare o limitare le esperienze nella prima infanzia ad oggetti a due dimensioni altera la percezione dello spazio, la riduce, la relativizza creando una falsa esperienza del mondo circostante, come può essere assistere alla visione di un film sullo schermo.

  1. Ma è proprio vero che si vince sempre?

Se il semplice tocco dello schermo provoca immagini, apre, chiude, avvia applicazioni, il bambino faticherà ad attribuire ad una propria scelta ciò che sta succedendo, perché avvengono sempre e di continuo cose sullo schermo. Anche se commette un errore, è possibile che non se ne accorga perchè sul tablet continueranno a succedere cose, senza possibilità di modificare la propria scelta e senza poter verificare, perdendo importanti occasioni di apprendimento. Perché – non dimentichiamolo – gli errori sono quelli che ci inducono a continuare a cercare, a migliorare, a crescere (in molti sensi). L’esperienza dell’insuccesso dà informazioni sui propri limiti, sulla necessità di sperimentare fino a raggiungere l’obiettivo, sull’opportunità di chiedere ad altri quando da solo non riesco. Quanta vita si può imparare “solo” giocando!

  1. Toccare non basta

I progressi della scienza e della tecnica ci mostrano quanto Madre Natura ha ritenuto importanti le abilità manuali nell’evoluzione della specie umana. La corteccia cerebrale è occupata in gran percentuale dalle stimolazioni sensoriali di due organi, la bocca e le mani, come messaggeri privilegiati di informazioni del mondo esterno e di quello interno. Sono entrambi organi sensoriali di importanza letteralmente vitale, se pensiamo alla funzione protettiva delle papille gustative che ci allertano attraverso il gusto amaro o acido delle sostanze nocive; o alla possibilità di costruire oggetti, cucire vestiti, coltivare ortaggi data dal pollice opponibile, come impulso dello sviluppo evoluzionistico dell’Homo Sapiens.

Ora il pollice opponibile serve sempre meno, le scarpe non hanno lacci da annodare, i pantaloni non hanno cerniere da accoppiare, le maglie non hanno bottoni da afferrare con la punta delle dita, lo spazzolino si muove da solo sui denti da lavare. Attraverso una tastiera si può disegnare, scrivere o suonare uno strumento senza preoccuparsi di trovare la giusta posizione sulla matita o sui fori del flauto coordinando il respiro.

La semplificazione eccessiva delle attività quotidiane – così come dei cibi che offriamo ai bambini – sottrae esperienze e non costruisce competenze, per cui troppo spesso si incontrano bambini anche grandi che semplicemente “non sanno fare”, sono imprecisi e abbandonano facilmente ciò che non riesce al primo tentativo.

La soluzione è a portata di mano, o meglio, la prevenzione è alla portata di tutti, sta nelle abitudini di una volta, nei bambini che imparano dagli adulti come si fanno le cose: come si tengono le posate – anche il coltello – sì, come si sbuccia una mela, come si mangiano le olive con il nocciolo, come si tempera una matita, come si allacciano le scarpe e come si fa la coda ai capelli. Piccole abilità che crescono con i bambini, se gli si dà modo di sperimentarle ed allenarle, prima con la supervisione dell’adulto e poi in autonomia, pronti per continuare ad acquisire competenze via via più complesse.

E per apprezzare senza effetti collaterali – dopo i 6 anni – gli stimoli veloci, irruenti e rumorosi del desiderato tablet.

Buone vacanze a tutti!

 

 

 

Daniela

Daniela

Daniela Filippini. Laureata in Logopedia con lode presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Torino, mi occupo prevalentemente di disturbi del linguaggio e dell’apprendimento, in collaborazione con la Fondazione don Carlo Gnocchi Onlus e il poliambulatorio Oasimedica. Nel tempo libero le mie passioni sono il cinema, il teatro e gli sport di montagna.

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