Lo sappiamo tutti cosa accadde il 19 Luglio 1992 in Via D’Amelio. E chi non c’era ancora, o stava per nascere, è comunque a conoscenza dei fatti.
Si tratta di una macchia indelebile nella storia italiana, qualcosa che non può essere dimenticato nè taciuto. Era domenica, proprio come quest’anno, e il Magistrato Paolo Borsellino, insieme a cinque agenti della sua scorta (tra i quali la giovanissima Emanuela Loi), venivano uccisi da un attentato di stampo mafioso.
Palermo quella domenica, era diventata l’inferno.
Il pericolo più grande, quando si parla di Mafia, è l’omertà, complice di questi atroci delitti. Fortunatamente, però, c’è sempre stato qualcuno pronto a superare i limiti della paura. Qualcuno che con lucidità si è fatto veicolo di denuncia e ribellione ad un sistema assassino.
Oggi come ieri
Serafina Battaglia, la prima donna testimone di giustizia, è stata una di queste persone.
È il desiderio di vendetta che muove la sua testimonianza: per avere la sua rivalsa collabora con lo Stato.
Serafina Battaglia aveva già generato uno scandalo nella Sicilia degli anni ‘50, lasciando il suo primo marito per stare con Stefano Leale, commerciante e uomo d’onore. Diventa, dunque, una donna di mafia e conosce perfettamente tutti i dettagli del ruolo del compagno all’interno del mondo della criminalità organizzata. Affiliato al clan dei Rimi, Stefano Leale viene ucciso il 9 aprile 1960 per un presunto atto di infedeltà nei confronti del sistema. Serafina, che da buona madre di mafia aveva trasmesso al figlio il codice d’onore di cosa nostra, incalza il giovane Salvatore a vendicare la morte del padre.
La vendetta di Serafina Battaglia
Il ragazzo si convince, così, a portare a termine i propositi di vendetta, ma l’attentanto contro i Rimi fallisce. Il 30 gennaio 1962 Salvatore viene ucciso all’età di 21 anni.
La reazione di Serafina è imprevedibile. Capisce che l’unico modo per vendicare davvero il marito e il figlio, è quello di collaborare con il vero nemico della criminalità organizzata: lo Stato. Infrange il muro dell’omertà, parla col giudice Cesare Terranova e racconta tutto, colpendo il cuore del sistema.
In questa battaglia Serafina è completamente sola, i suoi parenti la giudicano una povera pazza, ma lei non si ferma e arriva fino in tribunale.
Nel 1969 arriva al processo presso la Corte d’Assise di Perugia, denuncia tutto e tutti, non risparmia alcun particolare e la sua storia diventa ben presto un caso mediatico.
Da questo momento Serafina diventa una Testimone di Giustizia in molti processi per i successivi 9 anni, periodo che trascorre girando i tribunali di tutta Italia e rilasciando numerosissime deposizioni. Decide di farlo nonostante la relativa fiducia nella giustizia terrena, che si dimostrerà vana il 13 febbraio 1979.
L’ingiustizia e la solitudine di Serafina
La Cassazione annullerà le sentenze che avevano condannato Vincenzo Rimi all’ergastolo e tutti gli imputati verranno assolti per insufficienza di prove.
A Serafina non rimane che chiudersi nella sua casa di Palermo, dove rimane per più di 20 anni, sola e dimenticata. Muore il 10 settembre 2004, senza sapere, però, che tante altre donne di mafia negli anni a venire avrebbero seguito il suo esempio dando il loro contributo alla giustizia.
Quella di Serafina non è da considerarsi una sconfitta, ma il punto di partenza per la lotta all’omertà.